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Non me ne vado! Anzi… Resto! Storia attuale dei giovani terremotati del ’68

Non me ne vado! Anzi… Resto! Storia attuale dei giovani terremotati del ’68
26 gennaio
19:56 2018

Le ricorrenze sono tempo, tra le altre cose, di bilanci. Ci si guarda indietro per capire e ripercorrere quel che è stato, quel che sarebbe potuto essere e quello che invece è a causa delle scelte del passato.

Per i giovani del Belìce di oggi parlare del tragico evento che cinquant’anni fa sconvolse la vita di migliaia di persone, ne uccise centinaia e sfigurò in maniera irrimediabile il volto di un intero territorio, può sembrare anacronistico. Loro il terremoto non l’hanno vissuto in prima persona. Ma per i giovani del Belìce, purtroppo, il terremoto o quantomeno i suoi effetti non sono mai finiti.

A distanza di cinquant’anni le ferite fisiche (e non) dei luoghi non sono rimarginate, sanguinano ancora copiosamente. L’emorragia dell’emigrazione non si è mai arrestata e, oggi più che mai, si è aggravata con l’alibi della crisi economica (che nel Belìce in realtà è una crisi cronica).

Crescere nei paesi del Belìce negli anni ’80 e ’90 ha significato, nel bene e nel male, subire gli effetti del sisma. È nel ricordo di tutti i bambini e ragazzi dell’epoca il continuo viavai di ruspe, camion e betoniere che operosamente demolivano e ricostruivano le nostre case e con esse il nostro futuro. Chi è nato agli albori del nuovo millennio ha vissuto solo marginalmente tale esperienza ma forse è colui o colei che subirà maggiormente gli effetti del terremoto.

Infatti, se da un lato non si può negare che la catastrofe abbia agevolato l’indotto dell’edilizia generando economia, dall’altro la mancata lungimiranza della pianificazione urbanistica ed economica ha restituito ai giovani delle città spesso anonime, prive d’identità, povere di infrastrutture e servizi, città dormitorio o per meglio dire “città dormienti” da cui spesso e volentieri i giovani non possono far altro che fuggire.

I vari piani urbanistici concepiti da Danilo Dolci, dal Centro Studi Valle del Belìce sulla base della condivisione popolare e dall’ISES stesso sono stati ampiamente disattesi, di essi si è voluto portare avanti solo quello che ha permesso di speculare.

Apprendiamo che dopo cinquant’anni la ricostruzione non è ancora stata ultimata, che a mancare sono soprattutto le opere pubbliche e le opere di urbanizzazione, ma i giovani del Belìce non hanno bisogno di nuove fognature (che in un Paese civile dovrebbero essere garantite a prescindere ma che, purtroppo, in alcune zone del Belìce, mancano ancora) i giovani del Belìce hanno bisogno di creare legami con la propria storia, col proprio territorio. I giovani del Belìce hanno bisogno soprattutto di non sentirsi obbligati a scappare dalle proprie città.

Si obietterà che non c’è lavoro. Eppure parlando coi giovani di questa terra si percepisce che il problema non è solo quello. Chi sceglie di fare l’università non pensa ancora al lavoro come una questione imminente, eppure già all’età di diciannove anni sceglie di andare il più lontano possibile dal Belìce e dalla Sicilia. Le facoltà palermitane, un tempo rinomate hanno perso il loro fascino. Perché? Come mai è così facile recidere le proprie radici? Andare via dal Belìce non è solo questione di necessità ma per alcuni, per non dire molti, è proprio un obiettivo che si alimenta quotidianamente con l’insofferenza e con l’incapacità di sopportare l’immobilismo, il degrado, la noia.

È un circolo vizioso: se tutti vanno via qui non si investe e se qui non si investe tutti vanno via… D’altronde, nel posto in cui vanno, la manovalanza di queste persone fa’ comodo. V’è di più: prima partivano i figli mentre i genitori si rassegnavano a rivederli una o due volte all’anno; oggi vanno via anche i genitori che, incapaci anche loro di sopportare lo status quo, si trasferiscono per stare vicino ai figli.

Questa è la triste fotografia del Belìce, un posto dove tutti o quasi, dopo cinquant’anni, hanno un tetto nuovo realizzato col contributo dello Stato, un patrimonio edilizio che poco a poco sta subendo l’ingiuria dell’abbandono. Sulla gran parte dei portoni di accesso alle costruzioni è affisso un cartello con la scritta “VENDESI” che, nella maggior parte dei casi, è anche particolarmente scolorito.

Il sogno è quello di sentir dire ai giovani: non me ne vado! Anzi… Resto!
Resto perché io le mie radici non le voglio recidere, con tutto il sacrificio che può comportare.
Resto perché quando vedo l’abbandono di quei ruderi che non ho mai conosciuto nel loro originario splendore, mi assale la rabbia.
Resto perché penso alle risorse non sfruttate di questa terra e alle sue potenzialità.
Resto perché la mia storia, quella dei miei genitori e quella dei miei nonni non vadano perdute.
Resto perché il malaffare non l’abbia vinta.
Resto perché questo popolo che si è rialzato con fatica mi ha insegnato a non arrendermi.
Resto perché voglio lottare affinché finalmente finisca questa ricostruzione e cominci la rinascita.

Massimo Trinceri

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