Diario delle mie letture Partanna 24/03/2014
Ho appena finito di leggere un libro e continuo a ritornarci con la mente. Capita raramente una cosa del genere o perché il libro non sei riuscito a comprenderlo bene, o perché non ti è piaciuto il finale, peggio ancora avresti voluto che la storia continuasse ma l’autore ha deciso che poteva bastare. “Figlio di nessuno” di Boris Pahor, scrittore triestino italo-sloveno, edito da Rizzoli è un’autobiografia di un professore triestino di origine slovena che durante la sua esistenza ha vissuto sulla sua pelle le più tragiche vicende della storia europea del Novecento: la lotta partigiana per l’indipendenza del popolo sloveno, i campi di concentramento della seconda guerra mondiale, egli fu infatti rinchiuso per motivi politici nel campo nazista Natzweiler-Struthof, le vicende drammatiche a seguito del disfacimento dell’ex Yugoslavia. La questione più sorprendente consiste nel fatto che questo scrittore fino al 2008 era quasi sconosciuto in Italia e ora è uno dei candidati più interessanti per il premio Nobel della letteratura. Cosa è successo? Ci siamo distratti? Su queste domande mi capita di ritornare con il pensiero considerando alcuni aspetti. Sono forse le difficili problematiche storiche ancora non del tutto risolte dalla cultura europea a rendere avvincente il racconto della sua vita? Oppure sono gli aspetti legati di più al mestiere di scrittore che lo sloveno Pahor ha frequentato, pur in assenza di notorietà, sin dall’adolescenza?
I temi della seconda guerra mondiale, specialmente quelli legati agli eccidi nazisti, fanno storcere il naso a molti e non solo per motivi politici. Spesso non amiamo il coinvolgimento in racconti che ci inchiodano a responsabilità che pesano direttamente sui protagonisti di quelle vicende ma anche su di noi eredi, in qualità di europei, di quelle drammatiche vicende storiche.
L’avere scoperto solo ora un grande scrittore che vive la soglia dei cento anni, è forse il segnale che abbiamo intenzione finalmente di fare i conti con la storia recente e una buona occasione è leggere il capolavoro di Boris Pahor “Necropoli”. Un’opera d’arte la si valuta nei contenuti e nella forma. Per uno sloveno triestino, costretto da piccolo, per imposizione delle leggi fasciste, ad abbandonare la lingua madre per parlare solo in italiano, l’esercizio della parola è stato nel corso della sua esistenza da un lato una costrizione, dall’altro una dissimulazione. Scrivere e parlare in maniera clandestina la lingua slovena cercando di conservarne la memoria, scrivere e parlare in italiano costretto dalla necessità di studiare, lavorare ha spinto lo scrittore sloveno a ricercare uno stile asciutto, influenzato dal neorealismo e dalla scrittura verista, lontano dall’uso eccessivo di aggettivi, perché a volte i fatti parlano da soli. Alla fine da semplice lettore al di là dei contenuti, sopra ogni riflessione sulla lingua, ti resta in bocca il piacere di avere rivissuto assieme all’autore i fatti salienti della sua incredibile esistenza e vorresti ricominciare poiché come diceva Pirandello la vita spesso è più sorprendente di ogni possibile fantasia.
Vincenzo Piccione