Al tempo di “lu megghiu muccuni di l’omu”. Testo di Rosanna Sanfilippo


SALEMI.Il segreto della longevità di un anziano ultranovantenne lascia di stucco un ortopedico. Il dottore, in piedi davanti la lavagna luminosa, esaminò le lastre con molta attenzione ed una certa curiosità. Ogni tanto spostava il suo sguardo dall’immagine impressa sulle lastre dei raggi X a quel suo anziano paziente al quale quelle immagini appartenevano. Gli era persino venuto il dubbio che quegli arti inferiori non fossero quelli dell’anziano seppur arzillo signore che gli stava davanti.
Sembravano essere le ossa di un cinquantenne nelle quali l’artrosi comincia appena ad insinuarsi, subdola, per rodere, pian piano, le articolazioni. L’ortopedico, dopo un tempo che al paziente sembrò interminabile, smise di guardare la lavagna luminosa dove erano attaccate le lastre e si sedette continuando a scrutarlo, cercando di riflettere con calma prima di pronunciarsi. Poi, rivolgendo la parola all’anziano, disse: «Signor Antonino, per piacere, si alzi e cammini avanti e indietro per la stanza». Antonino, in apprensione per il comportamento del medico che si mostrava alquanto crucciato ed indeciso, ubbidì immediatamente mettendosi quasi sull’attenti, come era stato abituato a fare da giovane, sotto le armi, di fronte ad un suo superiore e … sinistro – destro – sinistro – destro percorse a grandi falcate, avanti e indietro, l’ambulatorio. L’ortopedico lo osservò per un po’ e poi, senza alcun commento, gli chiese di spogliarsi e di distendersi sul lettino.
Dopo una visita accurata, lo fece accomodare nuovamente di fronte a lui e gli chiese l’età. Antonino rispose con la sua voce forte e chiara da soldato interrogato: «Classe 1922». Allora il medico, quasi confidenzialmente, avvicinando il suo viso a quello del paziente, come a voler carpire il suo segreto, gli chiese per quale motivo si fosse
rivolto ad un ortopedico. Quello rispose che qualche tempo prima era rimasto una settimana a letto a causa del nervo sciatico che gli si era infiammato, ragion per cui figli e nipoti avevano preteso affettuosamente che si facesse visitare da uno specialista. Con lo stesso tono confidenziale usato dal dottore, il paziente, sulle spine, chiese all’ortopedico, facendo riferimento a questa sua palese perplessità, se per caso avesse scoperto qualche cosa di grave. Ma il medico, scoppiando in una sonora risata, lo rassicurò. Gli spiegò che questa sua perplessità era dovuta al fatto che, durante la sua lunga carriera, non gli era mai capitato di vedere delle ossa così sane e robuste in pazienti tanto avanti negli anni, tanto da dubitare che le lastre fossero quelle della persona che gli stava davanti. A questo punto Antonino, con un sorriso sornione sulle labbra, avvicinandosi al medico gli sussurrò: «Dutturi,‘u sapi vossia qual è ‘u megghiu muccuni di l’omu?». Il medico rimase perplesso e quello gli suggerì la risposta: «È l’ovu, cu’ sali!».
Il dottore, ancora più disorientato di prima, gli chiese: «Ma che c’entra l’uovo con le sue gambe?». E Antonino, con l’aria di chi la sapeva lunga, rispose: «C’entra, c’entra! Vossia deve sapere che la mia povera mamma, prima di me, partorì ben undici figli, uno dopo l’altro, ma ognuno di loro morì poco dopo la nascita per deperimento. La levatrice disse che mia madre produceva latte guasto ed era questa la ragione per cui i bambini non riuscivano a sopravvivere». Immaginiamo in quale stato di disperazione si dovesse trovare quella povera donna che per ben undici anni aveva provato a mettere al mondo figli dei quali era poi stata inconsapevolmente la cagione della morte. Una balia avrebbe sicuramente risolto il problema.
Quelli, però, erano tempi duri, c’era appena di che sfamarsi. La popolazione non si era ancora ripresa dagli effetti devastanti della prima guerra mondiale. Le balie potevano permettersele soltanto i signori. Solo dietro un buon compenso una madre avrebbe condiviso il latte del proprio figlio con un altro bambino che non fosse stato il suo. Così Thanatos aveva preso dimora in quell’umile casa nel cuore del Rabbato, restando in agguato di quegli sventurati nascituri. «Quando nacqui, la mia mamma, disperata per aver partorito l’ennesimo figlio da sacrificare al signore delle tenebre, decise di difendere il suo bambino con ogni mezzo». “Mi hai già portato via undici figli senza che io potessi far niente per impedirlo. Ma la responsabilità della vita di questo bambino che tengo fra le braccia sarà interamente mia”, si disse. «E cominciò ad alimentarmi con le uova fresche del suo pollaio. Parenti e amici, perplessi, le consigliavano di non dare da mangiare ad un bambino così piccolo tutte quelle uova, perché gli sarebbe scoppiato il fegato. A quei tempi non si conoscevano ancora gli effetti del colesterolo. Lei rispondeva a tutti che, in tal caso, quel bambino sarebbe morto per colpa sua. Sarebbe così stata condannata per sempre all’atroce supplizio di dover partorire dei figli per seppellirli subito dopo».
Non c’è, per una madre, crudeltà peggiore di quella di dover sopravvivere ai propri figli. Immaginiamo quale atrocità poteva rappresentare sapere che quei figli portati in grembo per nove mesi con tanto amore fossero già condannati a morire.
Quell’incubo l’assaliva ogni notte durante la gravidanza. Si svegliava di soprassalto con la fronte imperlata di sudore. Il respiro che le veniva a mancare. Il cuore che le batteva all’impazzata. I muscoli del corpo che si contraevano nello spasmodico sforzo di stringere al petto quel figlio che teneva fra le braccia, per non farselo strappare via dalla morte. Ma, nel vano tentativo di proteggerlo, si accorgeva di essere stata lei stessa a recidere quel filo sottile che lo legava alla vita, stringendolo sempre più forte a sé. Così le lacrime le scendevano copiose sul viso e finivano per cadere sul suo bambino ormai privo di vita, mentre l’angoscia e lo sconforto l’assalivano. Al dispiacere si univa, poi, l’umiliazione di non riuscire a dare nemmeno un erede maschio alla famiglia e alla patria. Infatti, il 24 ottobre del 1920 la marcia su Roma aveva determinato l’avvento dell’era fascista.
Così, quando partorì il suo dodicesimo figlio, un maschio forte e robusto, appena lo prese fra le sue braccia, lo guardò e, struggendosi d’amore per quella creatura indifesa, giurò che avrebbe fatto di tutto perché non morisse.
«Non ricordo se mia madre nell’uovo ci mettesse il sale oppure no, ma escogitò quel modo di alimentarmi per cercare di salvarmi. Come vede, dottore, è riuscita nel suo intento. Io sono qui a dimostrarlo. Sono sopravvissuto mangiando uova. Sono diventato grande e robusto. Ho vissuto tutta la mia vita lavorando la terra e continuerò a lavorare sino a quando Dio lo vorrà. Sono novantadue anni che la morte mi rincorre, ma io la sfuggo correndo più veloce di lei con queste gambe robuste e spero di riuscire a sfuggirla per molti anni ancora prima di dovermi trovare faccia a faccia con lei».
Quella madre, con tenacia e caparbietà, era finalmente riuscita a vincere quella sfida impari contro la morte riuscendo a salvare il suo bambino.
Rosanna Sanfilippo
tratto da Belice c’è – Novembre 2015