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Repressione e processi politici: quando la protesta diventò reato

21 Febbraio
20:00 2025
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di Antonino M. La Commare

Nel secondo dopoguerra, la Sicilia occidentale divenne il fulcro di una stagione di lotte sociali che miravano a risollevare una regione piegata dalla miseria e dall’abbandono. Ma quelle rivendicazioni non furono accolte senza resistenza: lo Stato rispose spesso con durezza, utilizzando strumenti repressivi e processi politici per spegnere le proteste e criminalizzare i loro protagonisti. L’esperienza di Danilo Dolci e di molti altri attivisti siciliani è la dimostrazione di come la giustizia, in certi momenti storici, sia stata utilizzata per reprimere il dissenso invece che per tutelare i diritti.

Una delle pagine più significative di questa repressione fu lo sciopero alla rovescia del 1956, quando Dolci e un gruppo di disoccupati iniziarono a lavorare gratuitamente per riparare una strada pubblica abbandonata dallo Stato. La risposta delle autorità fu immediata: il sociologo venne arrestato con l’accusa di “occupazione illegale” e interruzione di pubblico servizio. Il processo si trasformò in un caso mediatico internazionale, con intellettuali e artisti di tutto il mondo che denunciarono la natura politica dell’incriminazione.

Non fu un caso isolato. Negli anni successivi, diverse inchieste giudiziarie furono aperte contro sindacalisti, attivisti e semplici cittadini che chiedevano migliori condizioni di vita. Le lotte contadine per la redistribuzione delle terre, le proteste per l’acqua pubblica e la battaglia contro il latifondo incontrarono spesso la resistenza dello Stato, che vedeva in quei movimenti una minaccia all’ordine costituito più che una richiesta di giustizia sociale. Le accuse di “istigazione alla rivolta” e “turbativa dell’ordine pubblico” divennero strumenti frequenti per bloccare il movimento di protesta.

Anche la stampa giocò un ruolo determinante in questa fase. I giornali nazionali, spesso vicini agli interessi politici dominanti, dipinsero le proteste siciliane come fenomeni marginali, alimentando una narrazione che criminalizzava i manifestanti e minimizzava le loro rivendicazioni. Solo grazie a voci indipendenti e all’attenzione della comunità internazionale, molte delle vicende giudiziarie si risolsero con assoluzioni o ridimensionamenti delle accuse.

Oggi, la storia della repressione delle lotte sociali in Sicilia rappresenta un monito su come il potere possa essere usato per soffocare il cambiamento. Se da un lato le proteste hanno portato a miglioramenti concreti nelle condizioni di vita delle popolazioni più povere, dall’altro hanno dimostrato quanto sia difficile ottenere giustizia in un sistema che spesso protegge gli interessi dei più forti. La memoria di quegli anni e di quelle battaglie è essenziale per comprendere il presente e per evitare che la criminalizzazione del dissenso diventi, ancora una volta, un ostacolo al progresso sociale.

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