Tra utopia e realtà: lo sviluppo mancato di un laboratorio politico

di Antonino M. La Commare
Per decenni, la Sicilia è stata considerata un laboratorio politico e sociale unico, un luogo dove le rivendicazioni popolari e le sperimentazioni amministrative avrebbero potuto tracciare la strada per un modello di sviluppo autonomo e sostenibile. Tuttavia, tra progetti mai realizzati, sprechi di risorse e una classe dirigente incapace di tradurre le istanze dal basso in politiche concrete, l’isola si è ritrovata intrappolata tra utopia e immobilismo.
Nel secondo dopoguerra, la Sicilia occidentale fu al centro di esperimenti di pianificazione democratica che avrebbero dovuto emancipare il territorio dalla dipendenza dai latifondi e dall’economia assistita. Le battaglie per la riforma agraria e il controllo delle risorse idriche, così come il movimento delle cooperative agricole e delle comunità autogestite, furono tentativi di affermare un modello alternativo di sviluppo, ma si scontrarono con la realtà di una politica inefficiente e di una burocrazia paralizzante.
Uno dei simboli di questa mancata trasformazione fu il piano per la costruzione di grandi infrastrutture idriche e agricole nella Valle del Belìce, pensato per garantire l’autosufficienza delle comunità locali. Se da un lato furono realizzate alcune dighe e progetti di irrigazione, dall’altro la gestione delle opere rimase nelle mani di consorzi e interessi privati che limitarono i benefici per la popolazione.
Allo stesso modo, l’istituzione dell’autonomia regionale con lo Statuto Speciale avrebbe dovuto garantire alla Sicilia una gestione più efficiente delle proprie risorse. Tuttavia, l’attuazione incompleta delle norme statutarie, unita a una politica clientelare e a un’eccessiva dipendenza dai finanziamenti statali, trasformò l’autonomia in un’arma a doppio taglio. Invece di diventare uno strumento di crescita, si tradusse in una macchina burocratica spesso inefficace, incapace di trasformare le grandi promesse in risultati concreti.
L’industria, invece di svilupparsi come motore di crescita endogena, venne calata dall’alto con la creazione di poli industriali che si rivelarono spesso fallimentari. I grandi insediamenti petrolchimici di Gela, Priolo e Milazzo, pensati come fulcro dell’industrializzazione siciliana, finirono per inquinare il territorio senza garantire un vero sviluppo economico. Allo stesso tempo, il turismo, sebbene potenzialmente una risorsa primaria, ha sofferto per la mancanza di una visione strategica e per un’infrastruttura inadeguata.
Il risultato di questa gestione inefficiente è sotto gli occhi di tutti: un territorio con enormi potenzialità mai pienamente sfruttate, un’economia che fatica a decollare e una popolazione costretta a emigrare per mancanza di opportunità. Oggi, il sogno di una Sicilia autonoma e produttiva appare lontano, ma non irrealizzabile. Per trasformare l’utopia in realtà, servirebbe una classe politica capace di ascoltare le esigenze reali del territorio e di investire in progetti di sviluppo sostenibile, invece di perpetuare logiche di potere che hanno immobilizzato l’isola per decenni.
La Sicilia ha tutte le risorse per diventare un modello virtuoso, ma la sfida resta la stessa di sempre: trasformare il potenziale in progresso concreto. Fino ad allora, il rischio è che il laboratorio politico siciliano resti solo una promessa incompiuta.